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Angela e la depressione post partum: “Noi mamme sommerse da stereotipi e aspettative”
Angela ha quarant’anni. Fiorentina. Una persona allegra, che ama stare in mezzo alla gente. Amante della libertà e dei propri spazi. Ma quando dieci anni fa per la prima volta è diventata mamma, tutto questo mondo fatto di spensieratezza, libertà, spazio personale…le è crollato addosso. Ha sofferto di depressione post partum. Ma se ne è accorta tardi.

Angela non vuole mostrarsi di mostrarsi, mi chiede di non rivelare il suo cognome.
Ci sentiamo via zoom.
E anche se c’è il filtro di un monitor, anche se la connessione è ballerina, percepisco uno sguardo velato.
Ho davanti una donna oggi consapevole dei passi e degli errori fatti, consapevole delle proprio fragilità e proprio per questo, e grazie al percorso che ha fatto, oggi Angela è una donna più forte. Ma ripercorrere quei momenti, fa ancora male. Anche se sono passati dieci anni.
E chissà che la sua esperienza non possa aiutare altre donne che stanno vivendo la depressione post partum. Un disturbo mentale scatenato dal parto, in cui la madre semplicemente smette di aver voglia di vivere, vive in una costante apatia e, nel caso di Angela, riversa qualsiasi energia e attenzione sul figlio, annullandosi completamente.
Perché è successo tutto questo?
L’allattamento. Eccolo qui, lo scoglio duro che ogni madre si trova ad affrontare, la cifra sociale che ci dice se siamo brave mamme o no, lo stereotipo della maternità da cui ci liberemo difficilmente: se allatti al seno, sei una brava mamma e il tuo bimbo crescerà sano; se non allatti, significa che non ti impegni abbastanza, e il tuo bimbo potrebbe soffrirne.
Tutte le mamme ci sono passate. Tutte ci siamo chieste: arriverà il latte? Il mio bimbo, la mia bimba, si attaccherà al seno? Che succede se non si attacca? Sono una brava mamma lo stesso?
Ad Angela non mancava il latte. Ma non usciva dal suo seno facilmente e suo figlio non voleva attaccarsi.

“Nel momento in cui ho partorito – mi racconta – ho sentito subito una forte sensazione di calore al seno. Mi stava arrivando la montata lattea, così subito. Mi si è indurito e ingrossato il seno, ma il latte non usciva se non a fatica. L’ostetrica mi ha aiutato in tutti i modi, ma non c’era niente da fare. E in tutto questo mio figlio non si attaccava. Il latte proprio non gli piaceva”.
Tornata a casa, Angela è entrata in depressione: “Il fatto che il latte non uscisse per me era un fallimento. E se ci aggiungo il fatto che il bambino, anche quelle volte in cui riuscivo a farlo uscire, non lo mangiava, io vivevo tutto questo come un rifiuto da parte sua. Mi sono sentita rifiutata da mio figlio”.
Angela si isola, la depressione avanza sempre di più
In realtà il bambino adora la mamma. Semplicemente, non adora il latte. E ancora oggi, a dieci anni, non lo beve, ma in compenso è attaccato a mamma Angela in modo impressionante.
“Ho provato di tutto – continua a raccontarmi – impacchi, massaggi, stavo ore al buio in salotto a tirarmi il seno, di notte per non svegliare nessuno. Niente, il latte non usciva”.
L’incontro con un pediatra diverso da quelli incontrati prima, le ha fatto capire quale fosse il reale problema: “Mi ha detto chiaramente che a mio figlio del mio latte non gli importava nulla. Ma della sua mamma sì, voleva una mamma allegra e io invece ero depressa”.
Perché in un momento della vita in cui tutti ti dicono che devi essere felice, che è un momento fantastico, che non puoi lamentarti o soffrire, chi si trova in una situazione come questa difficilmente riesce a parlarne con qualcuno.
Perché la società si aspetta che le mamme siano felici, non depresse.
“Io non ammettevo il mio malessere. Mi sono isolata del tutto. In quel periodo poi il mi compagno era via per lavoro, mia madre non poteva aiutarmi perché aveva avuto un incidente. Gli affetti più cari in quel momento non potevano sostenermi”.
A cinque mesi, visto che il piccolo non mangia a sufficienza, Angela e il compagno decidono di svezzarlo. Il bimbo mangia di gusto, sta bene. Ma Angela non ne esce.
Quando il bambino ha sette mesi, rientra a lavoro. In ufficio le cose vanno meglio, la depressione sembra sparire, ma quando rientra a casa, Angela ha solo una missione: accudire il figlio.
Non c’è spazio per altro: la sua vita, a parte il lavoro, è un continuo accudimento del bambino. Lei come donna non esiste più. I sensi di colpa per quei primi mesi in cui non ha potuto allattarlo, la sommergono.
“Il mio compagno mi ha detto più volte di andare in terapia insieme, ma io rifiutavo. Se ripenso a quel periodo e riguardo le foto di quei mesi, non ce n’è nemmeno una in cui sorrido”.
Angela si decide a chiedere aiuto
A un anno dalla nascita del figlio, Angela decide finalmente di andare in terapia. E gradualmente, ne esce.
Ricomincia a riprendersi i suoi spazi. A capire che oltre alla mamma, Angela è una donna. A cacciare via i sensi di colpa. A recuperare quel rapporto di coppia che si era perduto.
E poi, dopo sette anni, è arrivata una bambina. “Ero pronta questa volta – mi dice sorridendo – e quando ho partorito, mi è successa la stessa cosa accaduta con il primo figlio, una montata lattea fulminea. Stessi sintomi”.
“I medici mi hanno detto di aspettare 24 ore per capire come procedere, poi quando mi hanno confermato che la situazione sarebbe stata la stessa vissuta sette anni prima, ho chiesto loro di poter assumere la pastiglia che manda via il latte. Dopo tre giorni stavo bene”.
A sua figlia, Angela ha dato il latte artificiale fin da subito. La bambina lo ha bevuto bene fin dall’inizio. Nessun problema, nessun rifiuto. E Angela non ha sofferto.

“Quello che faccio fatica a comprendere – mi confessa – è la ritrosia verso il latte artificiale. Le ostetriche che ho incontrato mi hanno riempito di informazioni su come allattare naturalmente, ma nessuna si è presa un minuto per dirmi cosa fare nel caso avessi dovuto ricorrere al latte artificiale”.
“Io lo so che il latte materno è il migliore per il bambino. Lo sappiamo noi mamme. Ma se il latte non arriva o se una madre non se la sente di allattare, perché dovremmo essere giudicate? O, peggio, lasciate a noi stesse?”.
Angela ricorda il suo corso preparto: “Mi hanno parlato di come partorire e allattare al seno. E basta. Come se il parto fosse solo questo. Dell’impatto devastante che avrebbe potuto avere sulla mia salute mentale non me ne ha parlato nessuno. Nessuno mi ha preparato alla depressione, alla sensazione di sconforto e fallimento che avrei provato se non avessi potuto allattare. Non ci sono corsi per questo e invece dovrebbero esserci”.
Il parto è un momento delicato non solo come evento clinico, ma come evento che cambia, stravolge, butta all’aria la vita di una donna. Le madri dovrebbero essere sostenute in tutto il percorso, anche nei mesi successivi il parto.
Perché la serenità della mamma è una priorità per il benessere della donna e quello del bambino.