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Caregiver aziendale: un aiuto prezioso per i colleghi in difficoltà
Se ne parla poco e sono in pochi a sapere che esiste. Si chiama caregiver aziendale ed assiste il collega in difficoltà. Che si tratti di un lutto, di una malattia, di un trauma o di un momento difficile, sia in ambito lavorativo che personale, i caregiver aziendali intervengono per sostenere e per infrangere il senso di isolamento di chi sta male. Non si voltano dall’altra parte, non attendono che tutto passi. Sanno che la situazione può solo peggiorare, per l’azienda stessa e il team di lavoro. Sono colleghi, manager, consulenti che, per un periodo di tempo, indossano il “cappello” di caregiver, come farebbero con un familiare in un momento di fragilità.
Ne parliamo con Laura Sinatra, coach che promuove programmi di supporto psicologico ai dipendenti e alle aziende nei momenti di crisi aziendali. Si occupa anche di formazione del management per creare e diffondere una cultura di protezione della salute mentale e del benessere psicofisico nelle aziende.

Laura, perché caregiver aziendale?
La parola caregiver aziendale è nata quasi per caso, per dare un nome a ciò che ho visto in tanti anni di esperienza. Cioè persone e manager impreparati ad affrontare un collega o un collaboratore in difficoltà, che vive un disagio di qualsiasi genere, psicologico, personale, di salute, familiare, ecc. Si trovano catapultati in una dimensione non prevista e per la quale non hanno una procedura collaudata. Non sanno cosa fare o dire davanti a una persona che mentre lavora ha gli occhi lucidi perché ha appena pianto di nascosto in bagno, o che si ammala spesso o, ancora, che durante le riunioni ha lo sguardo fisso nel vuoto.
Oppure dicono le cose sbagliate, magari consigliano a caso farmaci da prendere per stare meglio. E il risultato quasi mai è quello sperato, anzi, si peggiora una situazione già critica e delicata.
I tentativi improvvisati, seppur in buona fede, si concludono, infatti, il più delle volte, con l’isolamento di chi è in sofferenza. Non tanto per cattiveria o indifferenza, ma proprio per la paura o l’incapacità ad affrontare argomenti sensibili.
Le aziende sono sistemi complessi, fatti di micro sistemi collegati tra loro. La sofferenza di un solo dipendente ha un impatto su tutto il team e non solo. Diventa più difficile il coordinamento, la distribuzione dei carichi di lavoro, gestire i momenti di quasi normalità e quelli più difficili.
Quali sono i casi in cui un manager può chiedere aiuto?
Sono tante le tematiche che possono indurre un manager o un membro delle Risorse umane a porsi il problema della cura verso una particolare situazione. E non si tratta di periodi infiniti, ma di momenti in cui è bene non improvvisarsi, non pensare che aver letto tanto, avere una certa età voglia dire saper affrontare ogni situazione. È importante saper chiedere aiuto per gestire la situazione di criticità più efficacemente e a diventare un caregiver strutturato.
Con un approccio di questo tipo, la risoluzione del problema è molto più veloce, si esaurisce in alcune sessioni, in qualche telefonata. Via via che ci si prende l’abitudine diventa più veloce e facile gestire le situazioni di criticità.
Si parte, invece, in salita laddove nel tessuto organizzativo ci sono delle forti resistenze legate alla richiesta di aiuto, perché si pensa di essere in grado di agire in autonomia: “il team è mio e lo gestisco io”, “sono un bravo manager se me ne faccio carico io, la responsabilità è la mia”.
In questi casi i manager diventano degli astronauti che, persi nello spazio, non chiamano la Terra, perché pensano di poter risolvere tutto da soli.

Può fare un esempio o raccontare di un caso particolare in cui siete intervenuti?
Tra i tanti, ne ho uno positivo e uno negativo. Partiamo dal positivo che è anche il più recente. Situazione di lutto, il dipendente (che chiameremo Giovanni) perde la moglie e non lo racconta a nessuno, nemmeno al suo manager. Non racconta nemmeno del funerale, aveva preso un permesso senza specificare nulla. Era però visibilmente provato e il manager lo vede, nel corso delle settimane, diventare sempre più strano, alienato quasi. Andava al lavoro ma tutti i colleghi lo vedevano spesso con lo sguardo perso nel vuoto, immobile alla scrivania.
In questo caso i dipendenti erano fisicamente in sede e questo ha permesso al manager di vedere con i propri occhi che qualcosa non andava e tempestivamente si è rivolto alle Risorse Umane, dicendo chiaramente “io non so cosa fare”. E le Risorse Umane hanno chiamato noi che siamo intervenuti sul richiedente, quindi il manager.
In che modo è intervenuta come caregiver aziendale?
Abbiamo cercato di ottimizzare le sue osservazioni e valorizzato ciò che il manager aveva fatto fino a quel momento. Partendo da qui, lo abbiamo quindi preparato per avvicinarsi al collaboratore. Si era poi creata una specie di barriera intorno a Giovanni, perché tutti gli altri del team avevano quasi un imbarazzo ad avvicinarsi. Che fosse in difficoltà era chiaro, che si trattasse di una questione grave, c’erano arrivati, però con il passare dei giorni si era verificato un graduale allontanamento da questo collega. Nessuno aveva più il coraggio di invitarlo a prendere un caffè o a pranzare insieme. Anche per parlare di lavoro gli scrivevano delle e-mail. Pur di non affrontarlo, avrebbero mandato un piccione viaggiatore da una scrivania all’altra! Il più grosso ostacolo era quindi superare questa barriera del silenzio.
Anche per il manager è stato un momento importante. Alla fine del percorso ci ha raccontato che ogni passo di avvicinamento sembrava che la terra gli scricchiolasse sotto i piedi. È stato però bravissimo.
Essersi messo questo “cappello” in cui si resta manager ma si diventa anche qualcos’altro, una persona che si prende cura di un’altra, lo ha poi aiutato anche umanamente e a darsi dei tempi. All’inizio lo abbiamo sostenuto ad affrontare il primo approccio, togliendogli l’ansia che dovesse essere risolutivo. Poi a creare una serie di situazioni per cui, piano piano, Giovanni e il suo manager sono tornati a essere in relazione e a ricostruire qualcosa.
Il manager ha capito che si era persa la fiducia tra di loro e l’hanno lentamente ricostruita, fino a quando Giovanni ha finalmente raccontato cosa era successo.
Nel momento in cui l’ha verbalizzato, si è potuto lavorare diversamente. Il dipendente poi ha ricevuto anche un supporto psicologico. Il manager, invece, ha fatto con noi ancora un pezzettino di percorso, perché era stato particolarmente toccato da questa storia. Infine, si è ritornati alla normalità lavorativa.
È vero che il manager alla fine si è tolto il cappello di caregiver ed è tornato a fare il manager, però, in qualche modo, non si può nemmeno dire che lo togli del tutto. Qualcosa rimane, un po’ più di umanità forse e la certezza che, se succede qualcosa di brutto, lo si può affrontare. Il luogo di lavoro è diventato per entrambi un luogo più sicuro.
Qual è l’orientamento generale delle aziende?
La tendenza a valutare l’inserimento di un programma di assistenza psicologica ai dipendenti inizia a vedersi. Per alcune multinazionali è un servizio imprescindibile da anni. Per le PMI o le aziende più piccole ci sono ancora alcune resistenze legate alla difficoltà di vedere “il ritorno” anche economico di questo tipo di supporto.
Tuttavia, la strada può risultare ancora difficoltosa, anche nei contesti organizzativi più collaudati. Ad esempio, all’interno della stessa azienda di cui sopra, posso avere l’esatto contrario di quanto raccontato.
Ed ecco il caso dall’esito meno riuscito: un manager che invece è stato molto giudicante con il dipendente in difficoltà. Siamo stati chiamati molto tardi. L’evento traumatico era avvenuto già diversi mesi prima. Anche in questo caso, si trattava di un lutto ma con l’aggravio di una malattia oncologica. Una persona quindi in lutto che si ammala e diventa anche paziente oncologico. Un mix davvero devastante, faticoso e difficile. Tra l’altro, una persona molto sola che viveva la sua socialità in azienda. Purtroppo, il manager di riferimento non voleva saperne di essere supportato e il dipendente ha chiesto, alla fine, di essere spostato in un altro team.
Il manager aveva un atteggiamento di chiusura: “questo non lo faccio o non mi sembra ragionevole”, “voi siete esterni”, ecc. Quando abbiamo chiesto cosa volesse mettere in campo per prendersi cura di questa persona, ha risposto che la vita privata e la vita lavorativa sono separate, non hanno un impatto l’una sull’altra, quindi, in realtà, non capiva perché dovesse occuparsene.
Il cappello di caregiver in questo caso è stato indossato dalla sua referente nelle risorse umane alla quale poi, tempo dopo, il dipendente ha chiesto di essere spostato di team. Nelle sue motivazioni ha detto soltanto che preferiva lavorare in un team in cui non fosse costretto a nascondere tutto ciò che gli stava succedendo.
Cosa è cambiato durante la pandemia?
Ecco, a proposto di non volersi nascondere, abbiamo notato che un certo tipo di cultura aziendale, che riconosce l’importanza di integrare la vita lavorativa e quella privata, ha consentito l’emersione anche più veloce di situazioni che potevano richiedere cura anche da remoto. Non è necessaria la visibilità diretta in azienda. Sono tante le situazioni che emergono da una lettura del comportamento del collaboratore, anche solo da come utilizza le call, dal problem solving, dalle e-mail. Abbiamo lavorato in situazioni di grosse criticità anche in contesti organizzativi in cui il personale lavorava al 100% in remoto.
Abbiamo fatto anche tanta formazione per creare delle figure attente in azienda alla salute mentale dei propri colleghi, creando situazioni anche pubbliche, non solo one-to-one, attraverso una formazione molto specifica mirata al benessere e alla salute mentale.
Negli ultimi due anni, infine, molte cose hanno iniziato a cambiare. Le aziende ci chiedono, infatti, di intervenire più spesso. Perché è come se in questo momento, così difficile per tutti e drammatico per molti, ci abbia “autorizzato” a non nascondere le nostre fragilità. Nonostante sia ancora molto forte in Italia lo stigma “io non sono pazzo”, “non sono inadeguato”, “non sono incompetente”, “perché devo chiedere aiuto?”.
Non si può, quindi, forzare un’organizzazione ad essere dove non vuole essere. Solo se la richiesta di aiuto parte dall’azienda si può fare qualcosa. Solo se la figura del caregiver aziendale è percepita come una risorsa che contribuisce a rendere l’ambiente di lavoro più inclusivo e sano.
Perché in Italia si fa fatica a capire che un dipendente sereno è anche più produttivo?
È vero, molte aziende italiane, soprattutto le PMI, fanno molta fatica. Sopravvive ancora un concetto di organizzazione un po’ rigido che fatica anche a costruire modelli di lavoro più agili basati di più sulle competenze e sulla condivisione. Ma è un concetto che sta iniziando a passare. Perché, nonostante la pandemia e una ripresa economica non certo da capogiro, tante persone se ne vanno. Una fuga che si può camuffare come un naturale turn over, ma non è così. Sempre più persone, non solo i giovani, non ci stanno a lavorare in un contesto che adotta logiche antiche, che non integra positivamente lavoro e vita privata, che non sa valorizzare la relazione nei team e le abilità individuali. Un esempio: i giovani talenti femminili spesso decidono di non fare carriera, non vogliono diventare come i loro capi.
In uno dei nostri percorsi di supporto, una dipendente di grandissimo talento, molto intelligente, preparata e brillante ci ha chiaramente detto: “io non vado avanti, non voglio fare carriera per diventare come i miei capi. Li guardo e non ho nulla da invidiare”.
Un’azienda che non si prende cura dei suoi dipendenti, che li abbandona a loro stessi, non perde solo i suoi talenti, che contribuiscono al suo valore. Perde molto di più. Ignorando le criticità ne crea altre, costruendo un ambiente lavorativo tossico e disfunzionale, che genera stress, demotivazione, errori e turnover.
Apprendere e generare una cultura del benessere può avvenire anche attraverso l’esperienza diretta e positiva che i dipendenti fanno nel momento della criticità. Questo comporta anche un altro vantaggio: i dipendenti che non sono stati coinvolti direttamente dall’evento critico vedono comunque che, in caso di bisogno, sarebbero supportati. E tutto questo ha un impatto positivo per la reputazione aziendale e per la sua identità. Perché se tutto ciò che è tossico dilaga, anche tutto ciò che è etico e fatto bene, con qualità, mette radici e si moltiplica.