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Giornata nazionale Parkinson: un’occasione di incontro e per sentirsi meno soli
Il 27 novembre 2021 è la Giornata Nazionale Parkinson, una patologia degenerativa e progressiva che si manifesta con tremore, rigidità e lentezza nei movimenti. Organizzata dalla Fondazione LIMPE per il Parkinson onlus, in collaborazione con molti atenei italiani, vuole essere un’occasione di incontro e di confronto sulla malattia, con approfondimenti dedicati alle famiglie, ai caregiver e ai pazienti per affrontare le sfide di tutti i giorni. I medici saranno a disposizione presso lestrutture che aderiscono all’iniziativa. È possibile trovare un elenco dei Centri clinici presso il sito della Fondazione (https://www.fondazionelimpe.it/giornata-nazionale-parkinson).
La malattia di Parkinson, seconda patologia neurodegenerativa dopo la malattia di Alzheimer, nei Paesi industrializzati colpisce circa 6 milioni di persone nel mondo, secondo uno studio del 2016 pubblicato su The Lancet – Neurology. La prevalenza e l’incidenza della malattia crescono poi nel tempo. Si tratta quindi di una malattia che avrà un impatto sempre più rilevante sulla salute pubblica.
Negli ultimi anni la ricerca è andata avanti e ha permesso di capire sempre meglio i meccanismi alla base della malattia, gli aspetti clinici e quelli terapeutici. E i ricercatori italiani si sono distinti per il valore dei loro contributi scientifici.
Ne parliamo con il Prof. Alfredo Berardelli, Presidente della Società Italiana di Neurologia, Professore Ordinario di Neurologia presso il Dipartimento di Neuroscienze Umane dell’Università Sapienza di Roma e Policlinico Umberto I.
Professore, che cos’è e a che età esordisce la malattia di Parkinson?

Alfredo Berardelli
Si tratta di una malattia degenerativa cronica che determina la progressiva morte dei neuroni di specifiche aree del cervello che, mediante un neurotrasmettitore, la dopamina, controlla i movimenti del corpo. Proprio a causa di questa morte neuronale si produce meno dopamina. Il risultato è che il paziente inizia a perdere il controllo motorio del suo corpo.
È una malattia dell’età adulta, in genere esordisce intorno ai 50-60 anni e la frequenza della malattia aumenta con l’età. Tuttavia, è ormai noto che la malattia può iniziare anche in età più giovane. Ci sono, infatti, casi, seppur rari, che iniziano prima dei 40 anni. Secondo le statistiche un paziente su 4 ha meno di 50 anni.
E come si manifesta?
Solitamente la malattia esordisce con sintomi motori come tremore, bradicinesia (rallentamento nei movimenti), rigidità muscolare, instabilità posturale nelle fasi più avanzate di malattia, e problemi motori globali che possono causare anche frequenti cadute.
Ma a volte si manifestano anche sintomi non tipicamente motori, tipo: lieve depressione, stipsi, insonnia, iposmia (ridotta sensibilità olfattiva), sbalzi pressori, un lieve disturbo dell’andatura, etc. Il quadro clinico ha un andamento evolutivo e i sintomi iniziali possono anche essere di modesta entità e non immediatamente riconoscibili, perché appunto poco specifici. All’inizio la sintomatologia si manifesta, nella maggior parte dei casi, da un solo lato del corpo per poi diffondersi, nel corso degli anni, anche all’altra parte.
Quali sono le cause?
I motivi per i quali avviene la degenerazione di alcune strutture cerebrali non sono ancora totalmente noti. Quello che sappiamo è che si verifica un deposito di un materiale proteico tossico. Questa proteina tossica comporta la morte progressiva delle cellule nervose e uno stato di sofferenza di tali strutture. Tale degenerazione è la responsabile dei sintomi clinici, sia motori, sia non motori. In altre parole, il meccanismo deputato alla pulizia dei prodotti metabolici di “scarto”, che ripulisce il cervello dalle proteine e le ricicla in aminoacidi riutilizzabili, non funziona come dovrebbe e le proteine tossiche si accumulano, bloccando il funzionamento dei neuroni della zona cerebrale interessata.
A cosa si può prestare attenzione per una diagnosi precoce?
La diagnosi si basa fondamentalmente sulla comparsa di sintomi motori che sono quelli più evidenti, quelli che una persona più facilmente nota e che può raccontare. Sappiamo che in realtà la malattia di Parkinson inizia molti anni prima della comparsa dei segni clinici motori specifici. Ciò quindi rende difficile una diagnosi precoce, perché spesso la malattia può esordire con disturbi non motori, poco specifici come insonnia, disturbi dell’emotività, depressione, problemi gastrointestinali ecc. Pertanto è difficile fare una diagnosi precoce se non si considerano i sintomi motori che sono tipici della malattia. La ricerca si sta sempre più indirizzando a individuare dei marcatori biologici di malattia, ma è tutto ancora in fase di studio.
In che modo la malattia di Parkinson limita la vita di chi ne è affetto?
Essendo una malattia caratterizzata da disturbi motori, quindi tremore o rallentamento motorio globale, può portare a una notevole limitazione della motilità volontaria, della deambulazione e dell’autonomia motoria. Tutto questo rappresenta una forte limitazione che rende il paziente, negli anni, non più autonomo e in grado di svolgere le sue attività quotidiane. Il rallentamento dei movimenti volontari, o la loro riduzione, anche di quelli più complessi, la modificazione della voce, la rigidità e il tremore a riposo sono tra i sintomi più comuni. Certamente cambiano il modo di vivere, ma grazie alle terapie è possibile avere una vita quasi normale.
Quali sono le cure? Ci sono nuove prospettive di trattamento dalla ricerca?
La terapia è fondamentalmente di tipo sintomatica, cioè combatte i sintomi. Al momento disponiamo di molti farmaci per alleviare la sintomatologia, non intervengono però sulla causa della malattia.
Le nuove frontiere della ricerca in quest’ambito riguardano terapie sperimentali che si basano sulla possibilità di utilizzare terapie immunologiche che mirano a limitare l’aggregazione di questa proteina tossica, quella che scatena la degenerazione dei sistemi neurologici. Quindi, terapie sperimentali con farmaci tipo vaccini e anticorpi monoclonali, ma sono ancora in fase sperimentale.
Anche quella con le cellule staminali?
Di questo tipo di terapia se ne parla da molti anni ma non si è arrivati a una definizione. Nei casi di malattia avanzata, con disturbi motori significativi, e che non rispondono bene ai farmaci, si può ricorrere a terapie complesse che consistono nell’infusione di farmaci per via sottocutanea o direttamente per via gastroduodenale. Ci sono poi approcci di tipo chirurgico molto efficaci per chi non risponde più alle terapie farmacologiche convenzionali e che presentano complicazioni da farmaci.
Che tipo di interventi sono?
Consistono nello stimolare direttamente alcune aree del cervello coinvolte nei meccanismi fisiopatologici della malattia. Sono interventi di neurochirurgia che si effettuano con metodiche stereotassiche e consistono nell’inserzione di alcuni elettrodi di profondità nelle strutture neurologiche coinvolte nella malattia. Si chiama stimolazione cerebrale profonda. Tali elettrodi in pratica inviano degli impulsi che modificano l’attività elettrica che causa i sintomi motori. Grazie a questa metodica si può ottenere un miglioramento del quadro clinico.
Qual è l’aspettativa di vita?
È simile a quelle dei soggetti sani. Certamente chi è affetto dalla malattia ha una maggiore fragilità in senso lato ed è più suscettibili a eventuali complicazioni di altra natura, ma la terapia è in grado di sostenere il paziente e di garantire un’aspettativa di vita pressoché analoga ai soggetti sani.
Ci sono forme di prevenzione per questa malattia?
No, non è realistico dire che esistono forme di prevenzione. La prima cosa è che i sintomi premonitori li conosciamo ma non li possiamo individuare tempestivamente, perché sono sintomi non specifici e quindi presenti anche in altre patologie. Vari studi hanno dimostrato che ci sono alcuni fattori di rischio che facilitano l’insorgenza della malattia id Parkinson. Quindi, l’unica forma di prevenzione è agire su questi fattori, ma è ancora tutto in fase di studio. Un’attività preventiva di fatto non esiste.
Quali sono questi fattori di rischio?
È stata pubblicata non da molto una ricerca portata avanti da me e dal mio gruppo di ricercatori proprio sui possibili fattori di rischio o protettivi nella malattia di Parkinson.
Esaminando gli aspetti ambientali (stile di vita, alimentazione, comorbidità e assunzione di farmaci) è emerso che solo pochi fattori si possono considerare a rischio, come l’esposizione ai pesticidi o un elevato consumo di latticini. Tra quelli protettivi, invece, l’assunzione di caffeina e l’attività fisica sembrano rallentare la progressione della malattia. Al contrario, fumo di sigaretta e l’abuso di alcol inducono a un rapido peggioramento del quadro clinico, soprattutto dell’aspetto cognitivo.
Possono esserci delle complicanze legate al Covid?
Molti studi hanno affrontato questa problematica, ma la maggior parte, per la forma specifica della malattia di Parkinson, ha dimostrato che, tutto sommato, i pazienti che hanno contratto il Covid non hanno avuto un peggioramento particolare, non c’è stata un’interazione negativa. Questo però vale solo per la malattia di Parkinson, perché per altre forme di parkinsonismo si è notato un maggiore aggravamento dei sintomi.
Bisogna però segnalare che nel periodo di lockdown, in cui il rapporto medico-paziente si è in qualche modo rallentato e sfilacciato, i pazienti sono stati seguiti con una minore incisività, c’è stato meno controllo, senza considerare l’effetto psicologico dell’isolamento e la paura della malattia che ha certamente contribuito a determinati peggioramenti in questo periodo. Che ci sia però una complicanza particolare la risposta è no, i dati non lo sostengono.