Giornalismo, comunicazione e divulgazione in ambito medico
In questi due anni di pandemia abbiamo toccato con mano cosa significhi non saper comunicare il rischio (in questo caso, clinico) in modo corretto. Le istituzioni hanno spesso fatto fatica a trovare i termini giusti e a spigare in modo semplice concetti complessi come epidemia, virus o vaccini. I media generalisti hanno completato l’opera, aumentando la confusione piuttosto di fare chiarezza. Se la comunicazione del rischio fosse fatta in modo sistematico, anche in tempi non di crisi, evitando improvvisazione e spettacolarizzazioni, anche la popolazione ne gioverebbe e potrebbe essere sempre più preparata ad affrontare qualsiasi sfida alla salute, da un’influenza a una pandemia.
Ma prima di tutto chiariamo una cosa: cosa significa esattamente comunicazione del rischio?
Il rischio
Possiamo iniziare a parlare di qualcosa senza, prima, definirla?
Sì, si può. Nessuna regola della parola parlata o scritta lo vieta.
Ma non lo ritengo un approccio completo e questa è la ragione che mi induce a prendere le mosse da una fonte autorevolissima in tema di significati.
La Treccani definisce la parola “rischio” in questi termini: “Eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili”.
Ed è a questo significato di base che ogni disciplina si riferisce quando utilizza il termine “rischio” per declinarlo nelle proprie peculiari tematiche.
Così, per esempio, in diritto commerciale si parla di “rischio di impresa” per indicare l’insieme delle responsabilità a carico dell’imprenditore per la gestione della sua stessa impresa.
Si tratta di un tipo del tipo di rischio
- che deriva dalle variabili macroeconomiche del mercato in cui l’imprenditore opera,
- che i suoi partner contrattuali non adempiano i loro obblighi
- che le sue scelte possano produrre perdite di capitale
- che è connesso alla volatilità degli investimenti finanziari.
Un altro esempio.
Nel linguaggio comune, si parla di rischio in ambito assicurativo quando ci riferiamo a quell’evento, futuro e incerto, la cui verificazione comporta effetti sfavorevoli all’assicurato con conseguenze dannose. Si pensi a un sinistro stradale: ricorrendone tutti i presupposti giuridici, scatta l’obbligo dell’assicuratore di risarcire i danni materiali e alla salute occorsi alla parte lesa.
Ecco, queste sono soltanto due mere esemplificazioni (non esaustive, peraltro) di declinazione del “rischio”.
Ma già da esse si può intuire che l’in sé del rischio affonda nel fatto che l’uomo è un soggetto che agisce e interagisce con tutto ciò che di animato e inanimato si trova nel mondo.
E, poiché le azioni umane non sono esenti da errori e fallimenti, ecco che il rischio altro non è se non la possibilità che dall’azione umana derivino conseguenze dannose.
V’è, tuttavia, una buona notizia: l’esperienza (aiutata, oggi, dalla scienza, la tecnica e la tecnologia) è in grado di codificare i rischi, le loro ricorrenze e, quindi, consente di esprimersi in termini di prevedibilità e prevenibilità del rischio.
Per questo, nell’ambito dell’impresa, esiste la disciplina del Risk Management e la correlativa figura del Risk Manager il quale ha il compito di
- analizzare le potenzialità di rischio insite in una specifica attività
- individuare i potenziali rischi connessi a quella attività
- elaborare idonee strategie di prevenzione del rischio.
Mutatis mutandis, la stessa esigenza è rinvenibile in ambito scientifico – sanitario, vale a dire quel settore dell’attività umana che ha come finalità la salvaguardia della salute dell’Uomo e la protezione dell’ambiente.
E, in tema di rischio per la salute pubblica (ovvero il diritto, tutelato dallo Stato, alla cura e salvaguardia dell’integrità psico- fisica della collettività costitutiva di quello Stato) la cosiddetta “comunicazione del rischio” assume un ruolo basilare.
Comunicare il rischio
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ( in inglese WHO) ha provveduto a esplicitato il senso dell’espressione “comunicazione del rischio” nell’ambito del documento titolato “Communicating Risk in Public Health Emergencies” e formato nel 2017.
Così vi si legge: “La comunicazione del rischio è parte integrante di qualsiasi risposta alle emergenze. È lo scambio in tempo reale di informazioni, consigli e opinioni tra esperti, leader di comunità o funzionari e le persone a rischio. Durante epidemie e pandemie, crisi umanitarie e disastri naturali, un’efficace comunicazione del rischio consente alle persone più a rischio di comprendere e adottare comportamenti protettivi. Consente alle autorità e agli esperti di ascoltare e affrontare le preoccupazioni e le esigenze delle persone in modo che i consigli siano pertinenti, affidabili e accettabili”.
Si tratta dunque, di un’attività trasversale in cui Scienze e Istituzioni di indirizzo politico- governativo centrale e territoriali si impegnano a fornire, ai cittadini presenti all’interno dei confini dello Stato oppure, in caso di rischi globali, alla popolazione mondiale grazie alla cooperazione tra gli Stati e le Istituzioni a livello internazionale) informazioni sul pericolo cui la cittadinanza è esposta, sugli effetti della attualizzazione del pericolo, sullo stato attuale della scienza in merito a quel pericolo, sulle norme comportamentali da tenere a livello collettivo e individuale nell’ambito delle comunità di appartenenza ( famiglia, lavoro, etc.) .
Lo abbiamo vissuto tutti sin dall’inizio di questa pandemia allorché il Governo, quali primissime misure di contenimento del contagio, prescrisse a tutti gli italiani il distanziamento sociale, l’uso delle mascherine, dei guanti e degli igienizzanti.
Ma l’espressione “comunicazione del rischio” non si riferisce soltanto all’ambito strettamente inerente la salvaguardia dell’integrità psico-fisica individuale e collettiva, ma anche ai possibili pericoli in tema ambientale e di cambiamenti climatici.
In realtà, a ben vedere, l’esigenza di comunicare il rischio non è qualcosa che appartiene all’attualità dei tempi che viviamo e alle problematiche cui l’Uomo sta andando incontro anche in conseguenza di atteggiamenti poco protettivi del nostro habitat: eccessiva antropizzazione, scarsa sensibilità in tema di emissioni, mancata adozione di azioni politiche di governo mirate alla salvaguardia ambientale, etc.
Affatto.
La “comunicazione” del rischio e il pericolo di correre un determinato rischio è qualcosa che appartiene alla nostra specie.
Il termine “comunicare” deriva dal verbo latino “communicare” che significa “mettere in comune” e, nella latinità, veniva utilizzato in ogni contesto in cui si voleva inserire l’idea di “condividere qualcosa”.
Ed è la filogenesi a indicarci che il “condividere” informazioni sul pericolo è uno degli argomenti essenziali dell’Umanità.
Si può affermare che, sul punto, esista un vero e proprio storytelling costruito dalla nostra specie.
Secondo uno studio condotto dalla Bournemouth University (GB) e pubblicato nel 2018 su Scientific Reports, nel sito archeologico di Melka Kunture (Etiopia) sono state ritrovate, assieme a utensili di pietra, e resti di ippopotamo sottoposto a macellazione, orme di adulti e bambini di Homo heidelbergensis, una specie ominide estinta.
Le orme – accanto alle quali si trovano anche altre orme animali quali uccelli, cavalli, suini e buoi – risalgono a qualcosa come 700.000 anni fa (antecedenti alla scrittura, dunque) e sono posizionate intorno a un piccolo lago di fango. Per la precisione, le orme dei bambini ( di età non superiore a 2 anni) si trovano nel fango e vicino a carcasse più piccole, mentre le orme degli adulti sono poco distanti.
Lo studio sostiene che i piccoli di Homo heidelbergensis fossero condotti in loco dagli adulti per addestrarli alla macellazione e a maneggiare l’utilizzo degli utensili adatti allo scopo.
Dunque è plausibile che già in epoca primitiva, l’Uomo insegnasse ai suoi piccoli a utilizzare gli strumenti necessari a trasformare la caccia in cibo evitando il rischio di ferirsi. La relativa informazione, comunicata di generazione in generazione, era chiamata a svolgere la funzione di tutela dell’integrità fisica della specie riducendo, per quanto atteneva l’approvvigionamento di cibo, il pericolo di lesioni fisiche più o meno gravi se non mortali per l’epoca.
L’evoluzione comunicativa ha modellato, cambiandole, oggetto e modalità, ma non la ratio dell’esigenza di trasferire informazioni sui pericoli, la loro potenzialità lesiva e i comportamenti utili in relazione al verificarsi di quel particolare pericolo.
Quando comunicare il rischio
Sarebbe errato ricollegare la tematica della gestione del rischio ai tempi in cui il rischio si attualizza.
In realtà, una risposta efficiente ed efficace nei momenti tragici per l’Umanità può verificarsi solo se si è gestito il rischio in tempi di normalità.
In Italia vi è un complesso di istituzioni preposte alla gestione del rischio: Comuni, Province, Regioni, Governo centrale con i singoli Ministeri competenti per materia, Dipartimento della Protezione civile, Servizio Sanitario Nazionale (SSN) Istituto superiore della Sanità ( ISS), Croce Rossa cui vanno aggiunti anche le Forze Armate e i Vigili del Fuoco.
Ognuna, in relazione alle proprie competenze e attribuzioni, ha il compito di studiare il pericolo, assumere le misure di gestione e contenimento ( misure che abbiamo imparato a conoscere con il nome “piani di emergenza”).
Tuttavia, sebbene si tratti di un’importante e ponderosa attività tecnico-organizzativa, essa non è tutto. Perché la sua efficacia è strettamente connessa alla condivisione di quelle misure con i cittadini potenzialmente interessati dal pericolo e dal rischio studiato.
Occorre che siano informati sia delle misure scelte sia dei consequenziali comportamenti che sono chiamati a tenere per evitare quel particolare pericolo.
Ecco, dunque, che ogni Istituzione ha il compito di comunicare il rischio alla cittadinanza di cui ha il governo secondo le rispettive attribuzioni e competenze per materia e territorio.
Naturalmente, in ciò giocano un ruolo determinante i mass media…ma questo sarà un altro articolo!
La percezione del rischio
Una corretta stima del rischio passa, necessariamente, dalla sua misurabilità: la probabilità di verificazione del rischio, l’incidenza sulla loro sopravvivenza, la quantificazione dei danni diversi da quelli strettamente sanitari ( come i danni economici in senso ampio) derivanti dal rischio e la loro ripartizione per settori di estrinsecazione umana ( danni finanziari, danni economici al comparto produttivo, a quelli del terziario, etc,).
In altre parole, è la statistica a porsi come testata d’angolo della gestione del rischio.
Ma c’è un “ma”.
Se è ben vero che la rilevazione in termini numerici di fenomeni sociali esisteva già nell’antico Egitto (caratterizzato da un’organizzazione amministrativo-burocratica fortemente accentrata che richiedeva, a fini fiscali e militari, conteggi aggiornati della popolazione. Ed è proprio per questa esigenza che la Seconda Dinastia si avvaleva di operazioni di censimento compiute ben ogni due anni!) è pur vero che l’Umanità ha dovuto attendere l’anno 1660 perché Hermann Conring, professore tedesco di diritto pubblico all’Università di Helmstadt, introducesse una serie di lezioni su quella che chiamò “Staats- Kunde” attribuendole il significato di “descrizione sistematica degli aspetti rilevanti di uno Stato”: ecco le basi della statistica moderna.
L’uomo primitivo non conosceva la statistica.
Eppure insegnava ai propri piccoli come macellare un animale con gli strumenti da taglio e non già come ferirsi con uno strumento da taglio durante la macellazione di un animale
Quello di provocarsi una ferita era un rischio ben insito in quell’attività.
Cacciare comportava rischi, addentrarsi in un territorio sconosciuto comportava rischi.
Come affrontarli e governarli senza un approccio statistico?
Nell’unico modo possibile: tramite il cervello.
Dinanzi alla percezione del rischio, questo organo ( che, al nostro stadio evolutivo, misura appena tra 1000 e i 1300 centimetri cubi) analizza il contesto concreto in cui il rischio si verifica e suggerisce la modalità più performante per superarlo anche alla luce delle esperienze pregresse.
Sono trascorsi centinaia di migliaia di anni, ogni habitat di cui l’uomo è protagonista è progredito anche per effetto dell’evoluzione tecnica e tecnologica ( certamente non solo, ma anche) con diretta influenza circa la valutazione dei punti di criticità anche sul piano strettamente percettivo.
Ma la dinamica di fondo non è cambiata: l’uomo percepisce il rischio, lo stima sul piano cognitivo e altrettanto sul piano cognitivo assume le misure necessarie.
Naturalmente, maggiore è l’esperienza fatta di un rischio
- maggiore ne è la conoscenza sia in sé sia in termini di problem solving
- maggiore è la sicurezza nella assunzione di altri e/o diversi rischi per scongiurarne uno di più ampie conseguenze: si tratta della valutazione “rischio/beneficio” (alzi la mano chi, di noi, non ha detto, almeno una volta nella vita: “Il gioco vale la candela”!)
- maggiore è la possibilità che il rischio venga sottostimato (e qui si apre un altro argomento).
Ma anche in un’epoca, la nostra, in cui la statistica si stringe in un abbraccio sensuale con il Data Mining, il concetto di “percezione del rischio” entra – di diritto e per necessità – nell’attività della comunicazione del rischio .
Del resto, i destinatari di quest’ultima sono, pur sempre, animali della specie Homo Sapiens Sapiens dotati di amigdala, quella piccola struttura cerebrale posta nel lobo temporale che tanto ruolo ha nella sopravvivenza in quanto responsabile del meccanismo di difesa noto come “attacco-fuga”.
Va da sé che nessuna metodologia di comunicazione del rischio potrà mai prescindere dalla sua percezione.
Non tanto per questioni legate a vincenti strategie comunicative, ma per un fatto molto più elementare: perché il numero e la qualità dei rischi cui l’Uomo è soggetto appartiene all’area dell’ignoto.
E, nonostante possa apparire banale, sottolineo “ignoto” che sul piano cognitivo è già molto se consideriamo– come l’etimo di questa parola suggerisce – la sua pertinenza a tutto ciò che è “non noto”.
Perché se appartenesse all’area del “mistero” (epurando questo termine dai suoi significati iniziatici e guardandolo esclusivamente in relazione al suo originario significato legato alla – altrettanto sua – radice indoeuropea) l’Umanità si sarebbe estinta da un pezzo.

Katia Bovani
Avvocato e giurista da oltre venti anni. Poi, si vive una volta sola. E ho deciso di dedicarmi alla mia passione: la scrittura. Che vivo, professionalmente, come editor e ghostwriter ( specie in ambito scientifico e tecnico) e, personalmente, come saggista. Mi trovi in libreria con due saggi, scritti coi miei coautori, "Blockchain: il futuro tra le mani" e " Chiamati ad alzarci. I social e la moneta". Sono anche su Amazon con "Non trovo il titolo giusto. Il diritto al progresso intellettuale"