Giornalismo, comunicazione e divulgazione in ambito medico
Marchetta o articolo giornalistico?

Di questi ultimi tempi, devo dire che faccio fatica. A trovare le differenze.
Intendiamoci, il giornalismo di qualità esiste anche nel nostro paese, ma troppo spesso ai lettori sono dati in pasto contenuti che di giornalistico hanno ben poco, hanno molto di commerciale, ma non è indicato da nessuna parte che quello che si sta leggendo non è altro che una nuova, subdola, poco trasparente, forma di pubblicità.
Nel gergo giornalistico la chiamiamo marchetta, vale a dire far passare un contenuto commerciale (che non leggerebbe nessuno) per contenuto giornalistico, che per definizione deve essere oggettivo, fattuale, indipendente e che proprio per queste sue caratteristiche ha una diversa autorevolezza e credibilità.
Nella marchetta si getta fumo negli occhi dei lettori e i valori di indipendenza, oggettività e verità fattuale si sbriciolano sotto il peso del dover batter cassa.
Capita più spesso di quanto si pensi: l’intervista a un Ceo di una casa farmaceutica o di altro marchio che parla solo del suo marchio e dei suoi investimenti, i successi aziendali di un’azienda, i benefici di un prodotto (senza metterlo in comparazione con altri, ma parlando solo di quello), la storia di un marchio (ah, lo storytelling!)…
Sentite puzza di marchetta quando l’articolo parla solo di quel marchio, senza citarne altri. Senza nemmeno metterlo a fianco ad altri articoli che parlano di temi simili o intervistano personaggi con ruoli simili.
E, soprattutto, senza scrivere a chiare lettere che si tratta di un articolo pubblicitario.
Il punto è che oggi la marchetta è più nebulosa che in passato: siamo di fronte a una marchetta non solo quando si cerca palesemente di far passare una pubblicità per un articolo giornalistico, ma tutte le volte in cui i contenuti commerciali non sono ben distinti da quelli giornalistici. E magari, lo si fa apposta.
Perché la pubblicità non piace a nessuno.
Le varie forma di pubblicità
Le testate, lo sappiamo, fanno fatica a sostenersi economicamente. C’è chi ci prova con gli abbonamenti, c’è chi, oltre a questi, offre la possibilità agli inserzionisti di pubblicizzare i propri prodotti. Con la classica pubblicità (i banner, per intenderci). Oppure tramite contenuti redazionali che somigliano tanto a quelli giornalistici, perché più appetibili, più leggibili, più coinvolgenti. Ma sono legittimi, se segnalati come pubblicità e non come articoli giornalistici. Vediamoli nel dettaglio.
- Il caro e vecchio publiredazionale
Si tratta di un contenuto commerciale scritto con font diversi (a volte anche lo sfondo è diverso) in una sezione ben distinta dal resto della pagina. Può essere scritto in modo molto commerciale oppure più simile a un contenuto giornalistico. Il titolo di questa sezione di solito riporta “Contenuto pubblicitario”, “Sponsor”, “Contenuto sponsorizzato”, “Realizzato in collaborazione con”. Se non c’è il titolo, se il contenuto commerciale non è segnalato come tale, siamo di fronte a una marchetta.
- Il sempre più insidioso native advertising
Si tratta di contenuti scritti in modo molto simile (ecco perché native) ai contenuti giornalistici. Possono essere solo foto con titoli in stile giornalistico (come quelli che incontrate scorrendo la home page dei siti dei giornali) e che poi, una volta che ci clicchi sopra, ti rimandano alle pagine dell’inserzionista, oppure a contenuti publiredazionali scritti direttamente dalla testata. È questo secondo tipo di contenuto che, se non messo ben in evidenza, rischia di essere confuso con un vero articolo giornalistico.
- Il fenomeno “brand journalism”
Negli ultimi anni molte aziende hanno iniziato ad assumere giornalisti per rinforzare il reparto marketing e comunicazione e diventare media di sé stessi. Ci sono marchi, come Marriott e Starbucks che hanno lanciato veri e propri magazine online. Nel nostro paese, Assocalzaturifici (la confindustria del settore calzaturiero) ha lanciato Italian Shoes, una rivista online che parla del settore. Alcune realtà giornalistiche, come Agi, hanno aperto sezioni dedicate al content marketing (AgiFactory) per offrire alle aziende la produzione di contenuti di qualità (il sito non è aggiornato da un paio di anni però). È un fenomeno interessante e non ci vedo nulla di male (noi giornalisti dobbiamo pur campare!) finché è fatto tutto alla luce del sole.
I contenuti del brand journalist sono pubblicati sui canali dell’azienda, dove il marchio è ben in evidenza, dove è chiaro che il medium utilizzato non è una testata giornalistica e anche se l’autore o l’autrice sono giornalisti, il contenuto non si può considerare giornalistico. Si chiama brand journalism perché utilizza la professionalità e il mindset giornalistico (cercare le notizie, farle emergere, andare dritti al punto, etc.) tipici di questa professione. Ma il contenuto NON è giornalistico.
- Il supporto non condizionante
In questi casi, la pubblicità consiste solo nel citare il marchio che ha sponsorizzato l’articolo, ma l’articolo ( o video o audio) è giornalistico in tutto e per tutto. È una forma recente di sostegno che qualche testata inizia a considerare: lo sponsor si limita solo a supportare la testata chiedendo di mettere il nome del marchio in una parte visibile dell’articolo, senza però influenzare o collaborare alla stesura dei contenuti, che rimangono quindi giornalistici.
Marchette o no?
Quelle appena descritte NON sono marchette nel momento in cui si segnala in modo evidente che si tratta di pubblicità.
Sono tutte forme di pubblicità assolutamente legittime. E molto utili, visto che le testate fanno sempre più fatica a sostenersi!
Il punto qui non è fare la pubblicità: se questa è segnalata in modo corretto (e spiegata bene), si può fare. Se l’articolo giornalistico è ben distinto da quello commerciale, va tutto alla grande.
Il problema arriva quando i due piani si confondono.
I contenuti pubblicitari redazionali sono più a rischio della pubblicità tradizionale (il classico banner, per intenderci) perché, per il font usato, la struttura e la stessa narrazione, possono essere confusi con l’articolo giornalistico vero e proprio e questo mette a rischio sia la credibilità del giornalista, sia quella della testata. E da ultimo, quella delle aziende. Che credono di essere furbe a finire dentro le marchette, mentre non si rendono conto di quanto male faccia alla loro immagine.
Non basta scrivere che il contenuto è sponsorizzato
Bisogna metterlo ben in evidenza.
Prima abbiamo visto quanto il native advertising sia insidioso quando non viene spiegato e nemmeno segnalato come si dovrebbe.
Alcune ricerche hanno mostrato che posizionare il disclaimer del native a metà dell’articolo o in fondo ne permette un maggiore riconoscimento come contenuto sponsorizzato da parte di chi legge, ma questo riconoscimento genera di solito reazioni negative da parte dei lettori.
Ecco perché la dicitura “contenuto sponsorizzato” di solito viene messa in alto a destra o sinistra e poco in risalto: così nessuno se ne accorge. Perché, in generale, i contenuti sponsorizzati ai lettori non piacciono.
Sui social media la situazione precipita.
Secondo Michelle Amazeen, giornalista di The Conversation, quando gli annunci nativi vengono condivisi sui social media, vengono spesso distribuiti in modi che confondono o ingannano ulteriormente il pubblico. Più della metà delle volte, ci racconta Amazeen, la segnalazione del contenuto pubblicitario scompare quando l’articolo viene condiviso su Facebook e Twitter. Riporta lei stessa un esempio: quando ha condiviso un annuncio nativo dell’American Petroleum Institute del Washingotn Post su Twitter, la segnalazione di contenuto pubblicitario è scomparsa.
Il rischio Agenda-Cutting
Per Agenda Cutting si intendono quei temi che vengono esclusi dalle agende delle testate giornalistiche. I giornali scelgono ogni giorno di occuparsi di alcuni temi e ignorarne altri. È normale, non è possibile scrivere ogni giorno di tutto lo scibile umano. Ma sulla base di cosa i giornali effettuano questa selezione? La pubblicità potrebbe avere un ruolo, soprattutto quando diventa una parte considerevole della sostenibilità di una testata?
Per dirla fuori dai denti: una testata è libera di condurre inchieste che citano le aziende inserzioniste?
In una ricerca pubblicata di recente sulla rivista Journalism (Sage) sempre la giornalista Amazeen ha dimostrato come le aziende sponsor fossero citate in modo diverso dai giornali dove investivano in pubblicità. Lo studio ha analizzato tutti gli annunci nativi tra il 2014 e il 2019 sul New York Times, Washington Post e Wall Street Journal, esaminando gli annunci nativi pubblicati dai notiziari su Twitter e con un processo di ricerca personalizzato basato su Bing. Su 27 aziende monitorate, per 16 la copertura delle notizie è notevolmente diminuita dopo la pubblicazione di un native. Cioè, la testata ha deciso di non parlare di quell’azienda (nel bene e nel male).
Questi risultati suggeriscono anche che le “notizie” guidate dagli inserzionisti – scritte e approvate da sponsor paganti – spesso non vengono contestate. Amazeen fa l’esempio di Wells Fargo, una società multinazionale di servizi finanziari afflitta da diversi scandali che ha pagato diversi annunci pubblicitari per contenuti native su New York Times, Washington Post e Wall Street Journal. Uno in particolare, creato da BrandStudio del Washington Post (contenuti native così belli noi ce li sogniamo, e parlo da un punto di vista di layout), pubblicizzava come Wells Fargo stesse investendo in un futuro ambientale più pulito. Se fosse stato un vero articolo di cronaca, chi lo ha scritto avrebbe dovuto riferire che la compagnia finanziava anche il controverso sistema ditrasporto sotterraneo di petrolio, il Dakota Access Pipeline. Lo studio ha rilevato come, in seguito a questi annunci native, ci sia stato un numero statisticamente inferiore di reportage su Wells Fargo non solo all’interno di queste tre testate giornalistiche di fama internazionale, ma in tutti i media online statunitensi.
La pubblicità serve, ma va usata con criterio
La pubblicità è uno strumento utile per le testate giornalistiche, perché solo con gli abbonamenti (almeno per le più grandi) non è facile sostenersi. Ma, come abbiamo visto, se usata senza criterio può essere un’arma a doppio taglio che alla lunga può disaffezionare i lettori, far perdere la credibilità alla testata e in alcuni casi influenzare l’agenda delle notizie di cui parlare.
Per me l’interesse e il rispetto di chi legge deve essere prioritario rispetto a qualsiasi altro aspetto. Purtroppo, non sempre i lettori percepiscono la gravità di questa situazione, sono ormai abituati a ricevere notizie praticamente gratis ogni giorno e non si soffermano troppo sul lavoro necessario per offrire un’informazione di qualità. Lavoro che deve essere pagato.
Come ci ricorda questa ricerca di Reuters, il finanziamento dei media, sebbene sia indubbiamente una questione importante per la società, non è qualcosa di cui il pubblico generale si preoccupa molto. La ricerca ha analizzato l’eventualità che il Governo possa sostenere le testate giornalistiche, ma è un’eventualità che non piace particolarmente: in Italia il 31% degli intervistati ha risposto che potrebbe essere un’alternativa, il 42% ha detto di no, il 26% non sapeva cosa rispondere.
Su PERSONE, OLTRE LA MALATTIA, ho scelto proprio di occuparmi di temi che non affronta praticamente nessuno, se non quando ci sono le (inutili) Giornate Nazionali o in particolari momenti in cui scatenare un po’ di emotività fa alzare il numero di clic. Si parla di pazienti, caregiver e di professionisti sanitari come non se ne parla da nessuna parte. E’ faticoso offrire informazione nuova e di qualità, ma il pubblico di oggi è esigente, la concorrenza di Big Tech non è alla portata dei più piccoli. Dobbiamo saper innovare, anche nel modo con cui scegliamo di informare. E dobbiamo essere trasparenti nei confronti dei lettori, spiegando quando un contenuto è pubblicitario e quando non lo è, come abbiamo fatto nella sezione dedicata alla pubblicità della testata. La trasparenza paga sempre.