Giornalismo, comunicazione e divulgazione in ambito medico
Iatrodemia: gli errori dei medici in tv e nella comunicazione durante la pandemia
In questa intervista, il prof. Paolo Nucci, co-autore insieme a Massimo Scaglioni del libro “Iatrodemia. Vizi e virtù dei medici in TV” (Piemme), nonché medico e comunicatore, ci offre una riflessione su come è andata la comunicazione sulla salute negli ultimi due anni, cosa abbiamo sbagliato e come rimediare.
Iatrodemia è un neologismo che nasce dall’unione di pandemia e iatrogeno, (danno di origine medica). Con questo termine gli autori vogliono dare un nome al fenomeno comunicativo rappresentato dall’intervento dei medici sui media in particolare nei programmi televisivi.
Il libro esamina il ruolo dei media a partire dall’inizio della pandemia fino alla fine del 2021. Si è partiti con pochi medici ed esperti autorevoli da cui tutti si abbeveravano in un momento di estrema incertezza, fino ad arrivare ai dibattiti sregolati e alle polarizzazioni.
L’uso sregolato del dibattito nei talk show è stato il colpo di grazia alla credibilità di diversi medici, che, seppur competenti, si sono trasformati in personaggi e opinionisti. E questo ha gravato sull’intera categoria

Paolo Nucci
Professor Nucci, dove nasce l’idea di questo libro?
Il libro nasce dalla percezione di una comunicazione insufficiente e frammentaria. Non siamo riusciti a seguire un filo logico, i tempi non erano scanditi dal comunicatore, ma da un incalzare da parte del conduttore della trasmissione che portava da un argomento all’altro. Chi ha provato ad essere organico ha sviluppato una comunicazione da lezione universitaria, che però non è adeguata al contesto televisivo.
Quali sono stati i principali danni della iatrodemia, ovvero dalla presenza di questi medici in TV?
Il danno principale è stata la perdita di credibilità della classe medica.
Come medici eravamo il punto di riferimento delle persone. La gente chiamava a casa, ci fermava per strada per avere il nostro parere e per avere chiarezza di una situazione che non comprendeva. Nelle fasi inziali abbiamo date queste risposte, ma nel tempo non siamo riusciti a farlo, proprio perché c’è stata una comunicazione sbagliata governata dalla litigiosità.
Il medico è ontologicamente una persona con un Big Ego, e di regola non è umile, ma quando da un atteggiamento assertivo e direttivo diventa contraddittorio e dubbioso, il sistema comunicativo va in crisi.
Invece come è andata?
Il pubblico si aspettava che dicessimo cose univoche, incontestabili e che dessimo un senso alle direttive pesanti che sono state le restrizioni al movimento. Ma, dopo un primo periodo in cui pochi esperti erano effettivamente ascoltati, abbiamo iniziato a patire del fascino del presenzialismo televisivo. Personalismo ha generato molti conflitti: ogni medico, convinto di essere lui il detentore della verità, si mostrava insofferente verso posizioni contrastanti e lì partiva la polemica. Era insopportabile che qualcuno non accettasse la sua visione.
Democraticizzare, ovvero portare a livello di discussione, una problematica in cui le persone voglio scienza e certezze, è stato il primo errore. Abbiamo reso la medicina qualcosa di cui si potesse discutere in televisione. Attenzione, la medicina si deve discutere, ma nei contesti adeguati come i congressi, il consulto e il confronto tra colleghi, in cui ci sono e ci devono essere scambi tra esperti. Ma non in un Talk Show!
Se al pubblico non arrivano concetti chiari si crea l’idea che la medicina sia un’opinione, cosa inaccettabile e scorretta. Anche nella pratica clinica se una persona si rivolge a più specialisti e ognuno dà una risposta diversa chiaramente questa perderà fiducia nella medicina e la categoria sarà screditata.
La medicina dovrebbe stare al di sopra della discussione. Vedere alcuni medici abbassarsi ad un certo livello ha fatto si che la situazione sfuggisse di mano: chi osserva perde la sua fiducia nell’intera classe medica.
D’altra parte se entriamo troppo a fondo nei meccanismi televisivi il rischio è quello di entrare nella logica del confronto scorretto, dell’aggressività, la cosiddetta “rissa consustanziale al talk show”. Oppure si ha una presenza costante e disturbante di opinionisti, lo vediamo anche oggi con l’attualità della guerra in Ucraina.
Un altro danno che ne consegue è portare il pubblico ad avere giudizi molto radicali.
E cosa dire a chi difende la “libertà di opinione”?
Quando qualcuno obietta che in televisione devono essere rappresentate tutte le posizioni, sono assolutamente contrario: l’ambito in cui si muove la medicina non deve e non può essere un ambito dialettico. Chiaramente non abbiamo certezze su tutto, e Big Pharma può veicolare un messaggio gravato da interessi, ma chi meglio del medico è un garante della medicina? La figura del medico, proprio in virtù della sua “arroganza scientifica”, potrà discernere la verità. Noi una categoria di scettici: se un collega ci comunica, ad esempio, una nuova scoperta non accettiamo subito tutto, ma come comunità scientifica la verifichiamo e nel tempo la avvaloriamo. La scienza stessa nasce scettica.
Questa iatrodemia è dovuta solo a un problema dei media o anche dei medici?
Entrambe le cose. I medici hanno peccano da un lato di narcisismo, di culto della personalità, dall’altro non hanno compreso che le loro dichiarazioni potevano fare un grave danno. Ad esempio alcuni esperti, anche molto competenti, non conoscendo i meccanismi della comunicazione si solo lasciati sfuggire delle risposte che nel contesto della loro dichiarazione avevano un senso corretto, ma sono state poi estrapolate e decontestualizzate dai no vax a sostegno delle loro tesi.
Per quanto riguarda i media, in corso di pandemia abbiamo visto tanti errori anche da parte dei giornalisti che hanno minato la credibilità di chi era al governo, di chi prendeva decisioni importanti, come la vaccinazione di massa. La televisione ha fatto danno perché cercava di aumentare gli ascolti, e la televisione pubblica si è assoggettata a quel sistema.
La confusione generata e la perdita di fiducia hanno aperto, come sempre accade, le porte a tutta una serie di notizie alternative, che non hanno alcuna base scientifica.
In questo contesto le istituzioni (ISS, AIFA, Ministero della Salute)hanno usato canali social o il web, ma si sono prestati poco ai media di massa, un’assenza colmata da divulgatori improvvisati, è d’accordo?
Sono d’accordo. Le istituzioni inizialmente hanno pensato di fare una comunicazione, appunto, di tipo istituzionale, ma era inadeguata. Era un servizio ripetitivo e ridondante. Questa comunicazione creava invece morbosità e lasciava spazio a interventi che sminuivano o addirittura negavano quanto affermato dalle istituzioni.
Oggi sappiamo, esaminando a posteriori ciò che è avvenuto, che sarebbe stato più utile una comunicazione con il pubblico più diretta, che utilizzasse parole strategiche, per ingaggiare, spiegare, secondo una strategia di comunicazione del rischio al fine di promuovere i comportamenti adeguati.
La televisione di Stato avrebbe dovuto scegliere pochi esperti che sapevano comunicare e affidarsi a loro. Persone abituate a fare questo tipo di comunicazione e che non avevano bisogno di visibilità. Purtroppo sui nostri schermi, invece, si sono succeduti esperti che non sapevano comunicare e che purtroppo in molti casi, sono diventati personaggi, opinionisti, alla ricerca di notorietà e di consensi. Per contro, altri esperti si limitavano a dire l’ovvio, banalizzando la discussione e annoiando il pubblico.
Noi medici avremmo dovuto limitare la nostra presenza in televisione, evitare in tutti i modi gli scontri diretti tra un esperto e l’altro. Questo ha contribuito a fare arrivare i loro interventi a livello del gossip.
Nei talk show si sono invitate persone contro la vaccinazione. Che danni ha comportato?
In questi programmi spesso vengono invitati outsider che portano un’idea opposta proprio al fine di creare momenti di aspro dibattito e aumentare gli ascolti. Questo è accaduto anche relativamente alla campagna vaccinale in cui è stato dato spazio a persone contro la vaccinazione. Spesso è accaduto che queste persone fossero attaccate dagli altri invitati. Ma questo fa sì che il pubblico tende a simpatizzare per l’aggredito che si trova in minoranza. Quello che rimane agli ascoltatori non è quindi che questa persona sostenga assurdità, ma che anche questa opinione sia meritevole di attenzione. Sono dinamiche televisive ben note. Gli autori dei programmi sanno che creare momenti di aspro confronto crea un disagio nel pubblico e complicità con chi subisce l’attacco, anche se porta avanti idee irragionevoli.
Li abbiamo avuti anche nelle piazze, pochi ma tutti insieme, convinti che i vaccini facessero dei danni.
E questo è anche a causa dei media che hanno dato voce a queste idee e creato dei personaggi famosi che le promuovono.
La bassa alfabetizzazione sanitaria del nostro paese è in parte la causa dello scollamento tra le istituzioni/la scienza e la società che abbiamo visto?
Non più di altri Paesi. Credo che l’atteggiamento negativo nei confronti della medicina parta da presupposti lontani. La maggior parte delle volte l’avversione per la categoria medica nasce proprio dalla indisponibilità dei medici a concedersi all’ascolto verso il paziente.
A questo si aggiunge l’idea che i medici traggono profitto dalla malattia e il fatto che la sanità spesso non riesce a rispondere ai cittadini con tempistiche e modalità adeguate alle necessità di salute.
Se a questo aggiungiamo che alcuni medici/personaggi si sono manifestati con arroganza e aggressività in TV, il pasticcio è fatto.
Tuttavia in Italia abbiamo avuto un successo della campagna vaccinale, anche rispetto agli altri Paesi europei, è un buon segno?
Si, per fortuna. In fondo l’avversione verso l’indicazione medica non è passata, probabilmente perché la paura ha avuto un ruolo. Noi italiani ci siamo fidati comunque della medicina ufficiale piuttosto che di una poliziotta capopolo e di un marittimo sgrammaticato.
Oggi c’è una preparazione adeguata dei medici per quanto riguarda la comunicazione con il paziente e la comunicazione pubblica?
La mia generazione, sono laureato da quasi 40 anni, non ha ricevuto una preparazione specifica relativamente all’approccio verso il paziente. Lo abbiamo appreso dai nostri maestri e dall’esperienza, facendo errori.
Oggi si investe molto più tempo per insegnare la comunicazione agli studenti di medicina, ci sono dei corsi di comunicazione in medicina, ci sono gli psicologi medici che si occupano di questi aspetti. Ma è chiaro che lo studente che vede un suo mentore che si comporta in un certo modo tenderà a imitare tale approccio. Non c’è dubbio che la comunicazione col paziente si impara ancora sul campo e dall’esempio dei maestri.
Dedicare più tempo alla comunicazione pubblica può essere utile, ma occorre sempre fare esperienza anche in questo ambito. Non penso che ci sia un sistema didattico sufficiente che assicuri una migliore gestione del rapporto con i pazienti e con il pubblico. Nell’esperienza di tutti i giorni, il maggior incentivo a fare bene è il ritorno positivo che ci arriva dal paziente.
Penso che si sia utile entrare in corsia molto presto, proprio per iniziare ad avere questa esperienza di comunicazione con il paziente. Sarebbe utile anche registrare i dialoghi medico-pazienti e poi riascoltare con il proprio mentore che può correggere gli errori.
Una recente survey di UNIVADIS MEDSCAPE ha mostrato che il 23% dei medici fa uso di social media: c’è bisogno di un codice di comportamento nell’uso dei social da parte della classe medica?
Senza dubbio. I social sono un veicolo importante per il medico anche per avere visibilità. Penso che non sia giusto annullare la nostra presenza online perché lasceremmo spazio ai ciarlatani.
Un anno e mezzo fa sono stato accusato da una mamma di un bambino per non averla informata su alcune cure che aveva trovato sul web. Le ho spiegato con calma che sul web sono pubblicizzate anche cure che non hanno basi scientifiche e che non sono validate. Alla fine la signora, non solo non ha riconosciuto lo sforzo per averle chiarito le idee, ma ha anche fatto un’accusa a noi medici per non essere presenti sul web e sui social, lasciando così campo libero a chiunque voglia fare informazione medica. Risultato? Ho un account Instagram da due anni.
Quindi la nostra presenza è importante e c’è bisogno di un codice deontologico su quanto si comunica sul web. Occorre però sempre considerare che in questo contesto ci si mette a un livello in cui c’è qualcuno che è bravo a dire quello che gente vuole sentirsi dire. Questo è lo scenario della comunicazione di oggi.
Quindi come fare? Intanto dobbiamo dire sempre la verità dando messaggi chiari e scientificamente corretti.
In conclusione, come ci si salva?
La crisis management è molto importante. La gestione della comunicazione della crisi da parte delle istituzioni deve essere efficace e deve essere portata avanti da una task force di comunicatori professionisti che hanno una strategia di comunicazione ben definita rivolta alla popolazione. Non ci devono essere improvvisazioni, gestione volontaristiche e dilettantistiche. Quello che è mancato al nostro paese è proprio questo.
E non si deve lasciare spazio ai ciarlatani, nemmeno sul web o sui social media. Conviene esserci, sarà poi la gente e i colleghi stessi a verificare e dare credito (o discredito) a chi non ha comportamenti adeguati, che spesso vengono segnalati. Noi medici dobbiamo avere la forza di non far passare le bufale e fare massa contro i ciarlatani.
Autoregolarsi: nel mondo medico c’è anche molta competizione. Ma la competizione non deve essere scorretta altrimenti va a vantaggio di chi promuove soluzioni non scientificamente valide.
Chi è la persona ideale per fare comunicazione medico-scientifica?
È una persona che sa comunicare a livello professionale, si è costruito la sua credibilità, non ha interessi in termini di visibilità o di ritorno economico. Una “figura terza” che non entra nella polemica e in maniera garbata coglie le fragilità di chi racconta una bufala e lo smaschera.
Fonti
- Iatrodemia. Vizi e virtù dei medici in TV, Paolo Nucci, Massimo Scaglioni. Piemme
- Quanto sono frequenti i comportamenti inappropriati dei medici? Lo rivela l’indagine di Medscape, Daniela Ovadia, MedScape
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Simona Caporali
Biotecnologa farmaceutica. Dopo alcuni anni in laboratorio e un dottorato di ricerca, dal 2010 mi dedico pienamente alla comunicazione medico-scientifica. La mia missione? Aiutare medici e pazienti attraverso una comunicazione efficace.