Giornalismo, comunicazione e divulgazione in ambito medico
Paraparesi spastica ereditaria: la storia di Giorgia, mamma, caregiver e paziente esperta
Giorgia Tartaglia è la vicepresidente dell’associazione Vivere la paraparesi spastica, che si occupa di paraplegia spastica ereditaria, una malattia neurodegenerativa rara che colpisce 5/10 persone su 10.000. Ed è la mamma di una bellissima ragazza, Benedetta, che vive con questa condizione.

Giorgia con i suoi tre figli: Edoardo, Benedetta e la piccola Sofia
Accetta di farsi intervistare in un grigio giorno di inizio gennaio.
Capelli un po’ arruffati, senza trucco, il suo viso è talmente luminoso da riempire il video. Avrei voluto farle una video intervista, ma mi dice che non è truccata e non se la sente. Per me invece è bellissima, come può esserlo una madre che vive per la figlia (e gli altri figli) h24, che ha fatto dell’amore, del sostegno, della perseveranza e della determinazione le mattonelle del suo percorso esistenziale.
Una bellezza disarmante, difficile da cogliere e raccontare.
Il video mi avrebbe aiutato, ma pazienza, ci proverò con le parole.
Il giorno della diagnosi
Giorgia ha tre figli. Edoardo, il più grande, Benedetta, che oggi ha 19 anni e Sofia, che ne ha 14.

Benedetta da piccola
Mi sorride mentre parla, ma dietro quell’espressione si nasconde la storia di una famiglia come tante, colpita da una diagnosi maledetta di malattia rara, una tegola in testa se vogliamo usare un eufemismo, qualcosa che strazia l’animo di ogni membro della famiglia e non solo di chi ne è affetto, se vogliamo descrivere la realtà per come è davvero.
Benedetta fino a 9 anni era una bimba senza nessun problema di salute.
“Anzi, anche al di sopra della norma perché è una ragazza molto molto intelligente e molto comunicativa,” racconta Giorgia “ed era ed è una bimba bellissima, stupenda”. E a vedere le foto non si può che darle ragione.
L’incubo inizia dieci anni fa. E qui Giorgia fa una parentesi divulgativa per spiegare meglio il tipo di paraplegia spastica che ha colpito la figlia. D’improvviso mi pare di parlare con un medico, non con una mamma, casalinga e volontaria in un’associazione: “Ci sono due modalità di acquisizione della patologia: sia in forma ereditaria, dunque trasmessa attraverso i geni, sia in forma ex novo, cioè un’evoluzione di una degenerazione del gene che porta alla patologia; quella di Benedetta è risultata essere la forma ereditaria. Io e mio marito siamo portatori sani di questa patologia”. E me lo racconta come se mi parlasse della spesa fatta oggi al supermercato. Lucida, presente, consapevole. È un film talmente visto e rivisto, il giorno della diagnosi, è un’informazione talmente ben acquisita, quella relativa alla causa della malattia di sua figlia, che è ormai entrata nel quotidiano. È scritta sulle pareti, si sente nell’aria. È una presenza costante.
Io non dico nulla, la lascio continuare in questo monologo fin troppo consapevole.

Giorgia e Benedetta oggi
“Le prime avvisaglie che ci fosse qualcosa che non andava le abbiamo avute appunto intorno ai 9 anni di età. Cadeva frequentemente e aveva un’andatura un po’ particolare, sulle punte. Diversa.”
Deglutisce, si sistema i capelli, o meglio se li spettina. Si guarda intorno, respira. E poi riprende a parlare, guardando in basso. “Inizialmente pensavamo che fosse un problema ortopedico, ma gli esami hanno escluso questa eventualità. L’ortopedico ci ha quindi consigliato una visita neurologica”.
E il giorno di quella visita Giorgia non se lo dimenticherà più.
Era il 24 novembre 2011. Giorgia non capiva cosa c’entrasse una visita neurologica con i problemi di deambulazione della figlia.
Non lo capiva. O forse sì, ma la parte irrazionale rifiutava l’associazione.
“Siamo entrati al Bambin Gesù di Roma per fare un accertamento. Siamo usciti con una diagnosi di patologia rara neurologica degenerativa. Il medico ci ha parlato di questa patologia di fronte a Benedetta, senza troppi filtri. Ci ha detto che nella migliore delle ipotesi Benedetta avrebbe convissuto con un deficit deambulatorio e, nella peggiore, su una sedia a rotelle. Benedetta è scoppiata a piangere. Mio marito si è infuriato per come il medico aveva comunicato la diagnosi”.
Convivere con la paraplegia spastica ereditaria
La malattia di Benedetta è una forma complessa, e vede coinvolti vari distretti neurologici. I sintomi quindi vanno dalla disfagia, all’ atrofia ottica, dal decadimento cognitivo, all’intestino e vescica neurologici.
“Ma lei parla, ragiona” si affretta a chiarire Giorgia. Benedetta non è tutti quei sintomi che ha appena elencato, sono solo una parte della storia e nemmeno quella più importante. Perché Benedetta è vigile, presente. Anche se il decadimento cognitivo avanza, seppur lentamente.
“Benedetta ragiona, con i suoi tempi. Da alcuni esami fatti recentemente risulta che ci sia stato un decadimento a livello cognitivo, il quoziente intellettivo purtroppo si è abbassato, i tempi di risposta o di acquisizione delle competenze sono più difficili perché ha difficoltà nella memoria breve, ha anche difficoltà nell’esposizione orale”. Ma nonostante queste difficoltà, Benedetta frequenta l’università, Scienze Psicologiche per l’esattezza.
Vorrei chiedere a Giorgia cosa è cambiato dopo quel fatidico 24 novembre 2011. Ma mi fermo. Giorgia ha gli occhi lucidi, continua ad arruffarsi i capelli e a sistemarseli. Fa respiri profondi.
La ammiro in questa sua compostezza, in questa continua ricerca della lucidità che sembra voler scappare via e invece lei la ferma, la mantiene, le si aggrappa.
Non posso fare a meno di domandarmi come avrei reagito io a una notizia del genere. Dove si trova la forza per andare avanti?
Giorgia ha perso la forza, dopo quel giorno.
Per due lunghissimi anni.
“Sono andata in psicoterapia, avevo bisogno di aiuto. Tutti quelli che si trovano in questa situazione hanno bisogno di aiuto”. Mi parla del sostegno psicologico che non c’è, del fatto che le famiglie che ricevono una diagnosi di malattia rara poi vengono lasciate da sole, senza nessun supporto psicologico. Le famiglie portano da sole il macigno della diagnosi.
“Io e mio marito abbiamo reagito in modo diverso” mi racconta. Smette di toccarsi i capelli, ricaccia indietro le alcrime. Adesso scorgo una leonessa dietro quel video.
“Io non ho mai accettato o meglio, non mi sono mai data per vinta per la malattia di Benedetta. Mio marito invece l’ha accettata in modo remissivo, come se ormai non si potesse fare nulla”.
Combattere, sempre
Ma Giorgia non è il tipo di persona che accetta una diagnosi del genere senza combattere.
Perché magari la diagnosi non si può cambiare, ma vale sempre la pena lottare affinché la qualità di vita della figlia e di chi convive con questa patologia, possa migliorare.
Si può sempre combattere affinché la ricerca si attivi e trovi una cura.
Si può sempre combattere. Punto.
Tutta questa rabbia Giorgia ha saputo convogliarla nel modo giusto: a due anni dalla diagnosi è entrata nell’associazione di cui è oggi è vice presidente. “Non mi sono spaventata e ancora oggi non mi spaventa nulla. Ero molto determinata e i membri dell’associazione lo avevano notato, per questo mi hanno proposto di entrare nel direttivo”.
Il senso di colpa
In questo lungo viaggio, questa donna ha fatto i conti con il più grande nemico della mente materna: il senso di colpa.
Le sue energie erano per Benedetta, ma c’erano anche Edoardo e Sofia, gli altri suoi due figli.
Essere fratelli e sorelle di una persona con una malattia rara è complesso.
Perché si richiede, si pretende, a ragione, le attenzioni dei genitori che invece sono convogliate sulla figlia o figlio bisognosi di cure. C’è chi reagisce con compostezza e maturità, crescendo prima del tempo. C’è chi esplode.

Edoardo, Sofia e Benedetta da piccoli
“Edoardo è sempre stato un ragazzo tranquillo, non mi ha mai dato nessun tipo di problema. Ha sempre cercato di attirare il meno possibile l’attenzione su di sé”. Me lo dice sorridendo con la bocca, ma gli occhi non seguono, vanno per conto loro, cercano l’appiglio a quella lucidità che le sta scivolando tra le mani mentre mi racconta la madre che non ha potuto essere per gli altri suoi due figli.
“La malattia rara devasta ogni componente della famiglia”, taglia corto. E arriva al punto.
Non è Giorgia ad aver sbagliato, è la malattia ad aver causato tutto. Una parte di lei lo sa, ma l’altra non lo accetta. “Ognuno reagisce secondo il proprio carattere: Edoardo si è fatto da parte, Sofia ha retto meno il colpo: a scuola le chiedevano cosa avesse di sbagliato la sorella e lei, che è nata e cresciuta pensando che ciò che aveva Benedetta fosse normale, ha di colpo preso atto della particolare condizione della sorella. Con il tempo Sofia ha reclamato sempre più attenzioni, voleva essere vista, riconosciuta”.
Se il fratello e le sorelle in qualche modo sono andati avanti, non è stato così per i genitori. Giorgia si è separata dal marito. “Lo abbiamo fatto in modo consensuale” mi racconta “anche perché i problemi di coppia erano già presenti da prima, abbiamo sempre avuto delle evidenti differenze caratteriali che con la malattia di Benedetta sono esplose”.
Giorgia, rimasta l’unica adulta in casa, ha iniziato quasi impercettibilmente a contare su Edoardo. Il bimbo che sapeva stare in disparte, che non disturbava, che sapeva di non poter disturbare perché mamma e papà dovevano stare dietro a Benedetta, si è fatto uomo e appena ventenne è diventato il sostegno di Giorgia.
“Lo considero un adulto, come me” mi dice guardandosi le mani “lo vedo come una persona con cui potermi confrontare. C’è un rapporto paritario tra di noi, gli chiedo consigli. Forse non dovrei perché sono la madre, ma è un pilastro per me”.
Edoardo ha sostituito un po’ la figura paterna: sta dietro alle sorelle, sostiene la madre.
Benedetta e Giorgia non hanno sempre un rapporto idilliaco, perché il caregiving è qualcosa che nel lungo tempo può logorare, per questo ci sarebbe bisogno di un costante supporto psicoterapeutico per tutta la famiglia.

Edoardo e Benedetta
“Benedetta adora il fratello” mi dice, sorridendo questa volta con tutto il viso, occhi compresi, “mentre con Sofia ci sono più tensioni, ma è anche quella a cui chiede più supporto, forse perché è una ragazza come lei”.
Benedetta sogna come tutte le sue coetanee, ha progetti di vita, è determinata come la sua mamma e ce la mette tutta per spiccare il volo, a modo suo, con i suoi tempi.
Il ruolo dell’associazione dei pazienti

Giorgia insieme ad altri pazienti del Coordinamento Lazio Malattie Rare
L'associazione “Vivere la paraparesi spastica” è un'associazione di pazienti nata nel 2009 principalmente dalla volontà di alcune famiglie che sentivano il bisogno di riconoscersi ed essere riconosciute. “Perché quando si ha una diagnosi di patologia rara – ci ricorda Giorgia - la prima necessità è quella di entrare in contatto con altre persone, perché ci si sente soli. Perché questo aggettivo “raro” significa sconosciuto e unico. E questa unicità a volte può spaventare e dunque si ha il bisogno di riconoscersi attraverso anche altre persone che vivono lo stesso disagio”.
L’associazione nasce in casa Telethon e nei dieci anni successivi cresce molto sia in termini di adesioni, sia in termini di attività per gli associati, che riguardano anche progetti per la qualità della vita, ludici, sportivi e sociali.
Oggi è un’associazione che finanzia la ricerca: “Ci siamo dotati di un comitato scientifico coordinato dal professor Giorgio Casari, che è un ricercatore Telethon e che lavora al San Raffaele di Milano”.
Giorgia fa anche parte del Coordinamento Lazio Malattie Rare - COLMARE, che raccoglie le associazioni di malattie rare del Lazio.
Giorgia non si è fermata all’associazione, ma ha voluto diventare anche paziente esperta nella sperimentazione clinica dei farmaci: “Sono rappresentante di un’associazione e per me era importante approfondire i temi legati alla ricerca e alla sperimentazione clinica, per questo ho deciso di diventare paziente esperta EUPATI. Perché non ci si può improvvisare, perché non si può rappresentare delle persone se non conosci la normativa di riferimento che tutela i diritti delle persone con disabilità, perché non si può andare a parlare con un ricercatore se non si sa cosa sia la biologia, i processi biologici o biotecnologici. Bisogna essere competenti. Oggi c’è più attenzione verso il paziente come attore del sistema, non come elemento messo al centro ma senza essere preso davvero in considerazione. Per fare parte di questo sistema bisogna però studiare ed essere preparati”.

Angelica Giambelluca
Sono giornalista professionista dal 2009. Ho scritto e scrivo articoli in ambito medico e sanitario per diverse testate italiane, tra cui Fondazione Veronesi, Corriere Salute, AboutPharma, Medici Oggi e Policy and Procurement in Healthcare. Faccio parte del comitato scientifico della rivista Medici Oggi, edita da Springer Healthcare Italia. Per diversi anni sono stata direttrice comunicazione di cliniche private e questo mi ha permesso di affinare la mia esperienza anche nella comunicazione delle realtà private che operano nell'ambito sanitario. Mi occupo di comunicazione per aziende, professionisti sanitari e associazioni di pazienti. Conduco live sui principali temi legati alla sanità e ho realizzato il podcast “PostSanità” nell’ambito del diritto sanitario e della comunicazione. Sono intervenuta come relatrice a diversi corsi sulla comunicazione in ambito medico, destinata a medici e professionisti sanitari. Sono la fondatrice di MEDORA Magazine e la direttrice responsabile della testata PERSONE, OLTRE LA MALATTIA. www.angelicagiambelluca.com